Continua la saga più amata dai torinesi e dei non torinesi e dei torinesi che lo sono per osmosi (e dei torine-no ok basta). Procede la nostra esplorazione della città sabauda con uno scrittore giovanissimo. Uno che, sempre da giovanissimo, ha deciso di fare di Torino la sua città di elezione. Parliamo con Vincenzo Grasso, partito dalla lontana Sicilia.

Lui, caricaturizzato da me –chiedo venia– –oppureno

vincenzo grasso

Vincenzo Grasso guarda Torino con l’occhio dell’artista

Infatti, questo giovincello –che è davvero un infante e non solo per il mondo editoriale – può farci un ritratto della città piuttosto romanzato. Vediamo dunque il suo lungo dialogo con la capitale piemontese.

Qual è stato il tuo primo contatto con Torino? Da turista o da prossimo fuori sede?

Credo che il primo contatto con Torino sia avvenuto intorno al 2011, da turista, con mio padre. Aveva esaudito il mio desiderio di visitare il Salone del Libro. Ricordo ancora il freddo di quel maggio lì, che aveva spaventato il me tredicenne arrivato da un Sicilia. Lì, dove si cominciava già a frequentare le spiagge…

Il preciso momento di epifania di Vincenzo Grasso

Ovvero quello in cui ti sei detto che, tutto sommato “Io in questa città vengo a viverci”?

Durante la mia prima visita ci sono stati diversi momenti. L’aereo che sorvola il Piemonte e mostra la pianta perfettamente simmetrica della città di Torino; le Alpi in lontananza anziché l’Etna con i suoi sbuffi e l’assenza del mare. Tutte cose che mi hanno fatto invece esclamare: Io in questa città non ci vivrò mai!

Probabilmente la situazione si è rovesciata quando ho pubblicato il mio primo romanzo, nel 2015, e sono ritornato a Torino per visitare la Casa Editrice e presenziare al Salone del Libro (stavolta avevo cambiato ruolo, da lettore ad autore). C’è stato un momento preciso che mi ha fatto realizzare che quella sarebbe stata la città dove mi sarei formato. L’arrivo delle copie del mio romanzo in Casa Editrice. Ricordo di aver aperto la scatola contenente i libri con un coltello, sentendomi tanto un ginecologo alle prese con un parto cesareo. In quel momento, in quell’appartamento in Vanchiglia, io e Torino abbiamo dato vita a qualcosa che ci ha resi inseparabili.”

Tu che sei scrittore, Torino significa qualcosa per te, dal punto di vista letterario?

Torino significa tantissimo, come ho già fatto intendere, dal punto di vista letterario: mi ha dato i natali come autore, poi dopo il trasferimento per l’Università, ha continuato a fornirmi stimoli. Non avrei mai creduto di incontrare una comunità di poeti e scrittori con i quali confrontarmi, con le mie stesse ambizioni. Torino è il terreno più fertile in Italia, a mio parere, per far crescere l’attività letteraria. Basta girovagare per Via Po e rendersi conto di vivere in una grande libreria a cielo aperto. Va da sé che la città abbia maturato un’educazione alla lettura e di conseguenza alla scrittura. Poteva essere altrimenti?

Se dovessero chiederti di descrivere in una frase sola Torino?

Direi che Torino è un grande ballo in piazza, febbrile, senza vergogna, con un’identità che risiede nella festa di chi danza.

Domanda da milioni di euro. Tra dieci anni riesci a vederti sempre qui, oppure cambieresti?

Se ho scelto Torino è per la tensione al futuro che possiede, ma anche per l’accortezza che ha nel suo mantenersi quotidiana, comune. Credo che questa sia la sua forza. Non mi sono mai sentito obbligato a mantenere un determinato portamento, a dover mutare l’immagine di me per accordarmi a un’atmosfera condivisa. Come ho scritto prima, Torino si rispecchia nei suoi balli in piazza, dove si mischia la vita in modo gioioso: c’è spazio per tutti. Anche se dovessi andarmene, ritroverei il giusto ritmo di passi per tornare.